venerdì 9 ottobre 2020

Perché un paziente è asintomatico al COVID-19?

Diffusione del coronavirus e asintomaticità

Gli asintomatici sono fra di noi, ma nessuno presta attenzione


Libera traduzione dell'articolo di Emily Laber-Warren, direttrice del programma di reporting (*) sulla salute e la scienza presso la Craig Newmark Graduate School of Journalism presso CUNY (the City University of New York). (*) rendicontazione

Questo articolo è apparso in origine il 24 agosto su Undark ed è stato ri-pubblicato il 27 agosto 2020 su Medium. 

Quando si è cominciato a parlare di coronavirus, il termine che a me risultava poco chiaro era "asintomatico". Non riuscivo a capire come mai, mentre mi tenevo a debita distanza da un giovane che, davanti a me, senza mascherina e chiaramente infetto si dirigeva verso l'ospedale tossendo agitatamente, ci fosse in giro altra gente portatrice di virus che non presentava nessun sintomo eppure poteva contagiarti.

Pensate ad Ibrahimovic. Nessun sintomo, postivo al tampone, quarantena. Positivo anche al secondo tampone fatto 14 giorni dopo, e costretto nuovamente alla quarantena. Evidentemente la cura applicatagli non è stata sufficiente ad eliminare il virus dal suo corpo. 

Questo articolo cerca di chiarire il concetto di asintomaticità e indica su quali canali di ricerca si debba investire per trovare, se possibile, un ritrovato o un trattamento per estendere l'asintomaticità a tutti gli individui: se tutti hanno il COVID-19, ma nessuno presenta i sintomi della malattia che può portarti sotto una tenda ad ossigeno, va tutto bene, ammesso che la asintomaticità duri nel tempo. 

Ma fino a quel giorno o fino a che non ci sarà un vaccino efficace, meglio stare + che attenti. Questo virus è una brutta bestia, non è una semplice influenza e lascia comunque nel fisico segni permanenti.  

Dobbiamo a noi stessi e a chi ci circonda il dovere di prevenire il contagio in tutti i modi.

++++++++++++++++++++

Una delle ragioni per cui il COVID-19 si è diffuso così rapidamente in tutto il globo è che nei primi giorni, subito dopo essere state infettate, le persone stanno bene. Invece di mettersi a letto, vanno in giro per le loro faccende e così, senza saperlo, trasmettono il virus. Ma in aggiunta a questi pazienti pre-sintomatici, la diffusione silenziosa e senza sosta della pandemia è facilitata anche da un più misterioso gruppo di persone: i cosiddetti asintomatici.

Secondo varie statistiche, dal 20 al 45 % delle persone che hanno preso il COVID-19 passa indenne attraverso l’infezione senza neanche accorgersi che ha contratto il virus e, stando ad un recente studio del CDC, Centers for Disease Control and Prevention (uno dei più importanti dicasteri del Department of Health and Human Services americano, con sede ad Atlanta in Georgia) la percentuale potrebbe essere anche maggiore. Nessuna febbre o brividi, nessuna perdita di olfatto o del gusto, nessuna difficoltà respiratoria. Nessun sintomo di qualsiasi sorta.

I casi asintomatici non sono un fenomeno unico del COVID-19. Si presentano con l’influenza stagionale, e probabilmente, secondo l’epidemiologo Neil Ferguson dell’Imperial College di Londra, erano una delle caratteristiche anche della pandemia del 1918, quella dell’influenza spagnola. Gli scienziati però non sanno spiegarsi perché certe persone passanto attraverso il COVID-19 senza conseguenze. “Ad oggi questo è un enorme mistero,” dice Donald Thea, esperto di malattie infettive alla Boston University School of Public Health.

La teoria prevalente è che i sistemi immunitari delle persone asintomatiche combattono il virus in maniera così efficace da evitare loro di cadere ammalate. Ma alcuni scienziati sono convinti che la risposta aggressiva del sistema immunitario e lo sfornare di grosse quantità di anticorpi e altre molecole per eliminare l’infezione, siano solo una parte della storia.

Questi esperti stanno imparando che il corpo umano non sempre intraprende una guerra totale contro i virus e gli altri agenti patogeni. E’ anche capace di adattarsi all’infezione, talvolta in modo così perfetto da non fare emergere i sintomi. Questo fenomeno, conosciuto come tolleranza alla malattia, è ben noto nelle piante, ma è stato documentato negli animali solo negli ultimi 15 anni.

La tolleranza alla malattia è la capacità di un individuo di continuare a stare bene nonostante sia infettato da una quantità di agenti patogeni che fa invece ammalare gli altri contagiati, ed è dovuta ad una predisposizione genetica o o qualche forma di comportamento o di stile di vita. Per esempio, quando uno è infettato dal colera, che causa una diarrea acuta che può rapidamente portare alla morte attraverso la disidratazione, il corpo potrebbe mobilitare dei meccanismi che mantengono l’equilibrio dei fluidi e degli elettroliti. In altre infezioni, il corpo potrebbe aggiustare il metabolismo o attivare dei microbi intestinali – mettere cioè in atto tutti quegli aggiustamenti interni necessari per prevenire o riparare i danni al tessuto o per rendere il germe meno letale.

I ricercatori che studiano questi processi fanno uso di esperimenti invasivi che non si possono applicare alle persone. Ciononostante, essi considerano le infezioni asintomatiche come un'evidenza che la tolleranza alle malattie è presente nell’essere umano. Almeno il 90% degli infettati con il batterio della tubercolosi non si ammala. Lo stesso vale per molte persone di quel miliardo e mezzo nel mondo che vive avendo nell’intestino i vermi parassiti chiamati elminti. “A dispetto del fatto che questi vermi siano degli organismi molto grandi e che sostanzialmente migrino attraverso i tessuti provocando danni, molta gente è asintomatica. Non sa neanche di essere infetta,” afferma Irah King, professore di immunologia alla McGill University. “E allora la questione diventa, che cosa fa il corpo per riuscire a tollerare questo tipo di infezione invasiva?”

Mentre gli scienziati hanno osservato per decenni quei processi fisiologici che negli animali minimizzano il danno ai tessuti durante le infezioni, è solo di recente che hanno cominciato a pensare in termini di tolleranza alle malattie. Per esempio, King e colleghi hanno identificato delle specifiche cellule immunitarie nei topi che accrescono la resilienza dei vasi sanguigni durante l’infezione da elminto, e che comportano una minore emorragia intestinale, anche quando è presente la stessa quantità di vermi.

“Questo effetto è stato dimostrato nelle piante, nei batteri ed in altre specie di mammiferi,” dice King. E aggiunge, “Perché dovremmo pensare che l’essere umano non abbia sviluppato questo tipo di meccanismi per promuovere e preservare la nostra salute di fronte ad un’infezione?”

In un recente editoriale ‘Le frontiere in immunologia’, King e Maziar Divanaghi, suo collega alla McGill, descrivono le loro speranze a lungo termine in questo campo. Una conoscenza più approfondita della tolleranza alle malattie, essi scrivono, potrebbe portare “a una nuova età dell’oro nella ricerca e nella scoperta delle malattie infettive.”

Per tradizione, gli scienziati hanno visto i germi come il nemico, un atteggiamento che ha generato antibiotici e vaccini di valenza inestimabile. Ma, più di recente, i ricercatori hanno cominciato a capire che il corpo umano è colonizzato da miliardi di microbi che sono essenziali per avere una salute ottimale, e che la relazione fra uomini e germi è più sfumata.

Virus e batteri invadenti sono stati con noi sin da quando è cominciata la vita, per cui è logico che gli animali abbiano sviluppato dei modi sia per gestirli che per combatterli. Attaccare un agente patogeno può essere efficace, ma può ritorcersi contro. Da un lato, gli agenti infettivi trovano il modo di eludere il sistema immunitario, dall'altro la risposta immunitaria stessa, se non controllata, può rivelarsi mortale, applicando la sua forza distruttiva agli organi del corpo stesso.

“Per quanto riguarda il COVID penso sia molto simile alla tubercolosi, dove esiste una situazione alla Goldilocks,” dice Andrew Olive, immunologo alla Michigan State University, “per cui c’è bisogno di avere un esatto livello di infiammazione per tenere sotto controllo il virus senza danneggiare i polmoni.”

Alcuni dei meccanismi chiave di tolleranza alle malattie identificati dagli scienziati, hanno come obiettivo di mantenere l’infiammazione all’interno di questa stretta finestra. Per esempio, le cellule immunitarie chiamate macrofagi alveolari sopprimono l'infiammazione nel polmone una volta che diminuisce la minaccia posta dagli agenti patogeni.

Si sa ancora poco sul perché ci sia una tal varietà di risposte al COVID-19, dagli asintomatici ai malati con sintomi leggeri, a quelli che devono restare a casa per settimane fino a chi subisce il completo collasso dell’organismo. “Siamo solo al primissimo inizio,” dice Andrew Read, l’esperto di malattie infettive della Pennsylvania State University che ha contribuito ad identificare la tolleranza alle malattie negli animali. Read crede che la tolleranza alle malattie possa finalmente spiegare perché alcuni individui infetti presentino sintomi leggeri o addirittura nulli. “Questo perché forse sono più bravi ad eliminare sottoprodotti tossici, oppure a rigenerare più velocemente il tessuto polmonare, cose di questo tipo.”

L’opinione prevalente fra gli scienziati sugli asintomatici è che il loro sistema immunitario sia particolarmente ben regolato. Questo potrebbe spiegare perché i bambini e i giovani costituiscano la maggioranza delle persone senza sintomi, in quanto il sistema immunitario si deteriora in modo naturale con l’età. E’ anche possibile che l’immunità degli asintomatici sia stata innescata da una forma più leggera di coronavirus, come quelle che causano il comune raffreddore.

I casi di asintomaticità non attirano molta attenzione da parte dei ricercatori medici, in parte anche perché questi soggetti non vanno dal dottore e sono perciò difficili da rintracciare. 

Janelle Ayres, fisiologa ed esperta di malattie infettive al Salk Institute for Biological Studies, leader nella ricerca sulla tolleranza alle malattie, studia precisamente i topi che non si ammalano. Il punto focale di questa ricerca è il test della “dose letale 50”, che consiste nel somministrare ad un gruppo di topi una quantità di agenti patogeni sufficiente ad ammazzarne la metà. Mettendo a confronto i topi che sono sopravvissuti con quelli che sono morti, la Ayres riesce a mettere in evidenza quei tratti specifici della loro fisiologia che hanno permesso di sopravvivere all’infezione. Ha ripetuto l’esperimento molte volte usando diversi tipi di agenti patogeni con l’obiettivo di scoprire come si possono attivare delle risposte che difendano la salute in tutti gli animali.

Una caratteristica di questi esperimenti – una cosa che all’inizio la colse di sorpresa – è che la metà che sopravvive alla dose mortale è vispa e pimpante. Non viene assolutamente toccata da quella stessa quantità di patogeni che invece uccide la controparte. “Quando ero partita con questo esperimento pensavo … che tutti sarebbero stati male, che metà avrebbe vissuto e metà sarebbe morta, ma non è questo quello che ho scoperto,” afferma la Ayres. “Ho trovato che una metà si ammalava e moriva, e che l’altra metà non presentava nessun segno di malattia e sopravviveva.”

La Ayres ha visto qualcosa di simile accadere durante la pandemia di COVID-19. Alla pari dei suoi topi, gli asintomatici sembra che abbiano nel loro corpo la stessa quantità di virus della gente che si ammala, eppure per qualche ragione rimangono in salute. Gli studi mostrano che i loro polmoni spesso presentano segni di danni quando sottoposti a tomografia computerizzata, eppure non hanno difficoltà respiratorie (anche se resta da vedere se riusciranno a superare l’impatto sul lungo termine). Per di più, un recente studio minore suggerisce che gli asintomatici reagiscono con una risposta immunitaria più debole di quella delle persone che si ammalano – lasciando intravedere che i meccanismi che stanno lavorando non hanno niente a che fare con il combattere l’infezione.

“Perché mai, se presentano queste anormalità, sono comunque sani?” si chiede la Ayres. “Potenzialmente perché hanno attivato dei meccanismi di tolleranza alla malattia. Questi sono i soggetti che dobbiamo studiare.”

L’obiettivo delle ricerche sulla tolleranza alle malattie è di decifrare i meccanismi che mantengono in salute delle persone infette e trasformarli in terapie che possano giovare a tutti. “Si cerca di progettare una fabbrica in modo che, per ovvie ragioni, resista alle alluvioni, e perché allora non dovremmo volere una persona che sia resistente al virus?” si chiede Read.

Un esperimento portato avanti dalla Ayres nel 2018 ha offerto una prova di fattibilità di tale obiettivo. In un esperimento di “dose letale 50”, il team ha somministrato ai topi una infezione che causava diarrea e poi ha comparato il tessuto dei topi morti con quello dei sopravvissuti, cercando le differenze. Si è scoperto che i topi asintomatici avevano utilizzato le loro riserve di ferro per dirottare una quantità extra di glucosio ai batteri affamati, e che i germi, una volta saziati, non erano più una minaccia. Il team ha successivamente trasformato questa osservazione in un trattamento. Con altri esperimenti, hanno somministrato ai topi degli integrativi di ferro e tutti gli animali sono sopravvissuti, anche quando la dose di patogeni fu accresciuta di mille volte.

Quando la pandemia ha colpito, la Ayres stava già studiando i topi malati di polmonite e di sindrome acuta da distress respiratorio, la malattia tipica del COVID-19 che però può essere innescata da diverse altre infezioni. Il suo laboratorio ha identificato degli indicatori che possono dare informazioni sui canali di ricerca da perseguire per trovare una terapia. Il passo successivo è mettere a confronto con gli asintomatici dei pazienti che hanno raggiunto diversi stadi di COVID-19, per vedere se emergono indicatori che assomiglino a quelli trovati nei topi.

Se si arriva a sviluppare un medicinale, sarà qualcosa di differente da tutto quello che si trova oggi sul mercato perché sarà specifico per i polmoni, non per la malattia, e renderà facile superare lo stress respiratorio indipendentemente da quale agente patogeno ne sia responsabile.

Per quanto questa prospettiva sia affascinante, la maggior parte degli esperti avverte che la tolleranza alla malattia è un campo nuovo e che effetti tangibili sono lontani ancora molti anni. Il lavoro di ricerca comporta non solo misurare i sintomi, ma anche i livelli di patogeni nel corpo, il che significa uccidere l’animale e dissezionare tutti i suoi tessuti. “Non si possono realisticamente condurre degli esperimenti biologici in un essere umano,” riconosce il dott. Olive.

Per di più, ci sono innumerevoli forme di tolleranza. “Ogni volta che ne troviamo una, scopriamo che ci sono altri 10 fattori che non riusciamo a capire,” dice King. Questi fattori sono diversi per ogni malattia, aggiunge, “per cui tutto diventa quasi impossibile da gestire.”

Nondimeno, un crescente numero di esperti è d’accordo che la ricerca sulla tolleranza alla malattia potrebbe avere in futuro delle profonde implicazioni per trattare le malattie contagiose. La microbiologia e la ricerca sulle malattie infettive “sono state tutte centrate sull’agente patogeno visto come un invasore che deve essere eliminato ad ogni costo,” afferma il virologo Jeremy Luban delle University of Massachusetts Medical School. E come già chiarito dalla Ayres anche lui concorda che “ciò di cui dovremmo veramente occuparci è come prevenire che una persona si ammali.”